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Chi ha paura della paura?

Vi siete mai accorti che il vostro corpo vi “avvisa” quando c’è un pericolo? Avete presente la vertigine che provate affacciandovi nel vuoto su di un ponte o un parapetto? L’inquietudine che vi prende quando improvvisamente vi ritrovate al buio? Sono utili meccanismi adattivi frutto del risultato della nostra evoluzione. Alcune volte però non siamo in grado di collegare quelle sensazioni ad alcuna minaccia imminente e sono quelle stesse sensazioni che ci spaventano. Questo fenomeno è alla base della genesi ma soprattutto del mantenimento di molti disturbi d’ansia e la ricerca clinica l’ha definito Anxiety Sensitivity. 

Anxiety Sensitivity si riferisce alla tendenza ad avere paura delle sensazioni corporee associate con l’ansia, la cosiddetta attivazione neurovegetativa, e rappresenta una reazione cognitiva alle sensazioni corporee che porta la persona a viverle come potenzialmente pericolose per il proprio fisico. In pratica la persona prova una sorta di “paura della propria paura” innescata ed alimentata da pensieri a volte inconsapevoli. Molti di questi pensieri diventano rigidi diventando nel tempo delle vere e proprie distorsioni cognitive riguardo alle conseguenze negative delle sensazioni corporee che si provano:

  • palpitazioni;
  • sudorazione;
  • dispnea o sensazione di soffocamento;
  • parestesia;
  • sensazione di asfissia;
  • dolore o fastidio al petto;
  • tremori;
  • difficoltà di concentrazione;
  • confusione mentale;
  • derealizzazione

I fattori che generano lo sviluppo di questa particolare sensibilità alle sensazioni fisiche possono essere sia genetici che legati all’esperienza. Fattori ambientali di rischio sono la presenza di genitori che manifestano paura e timore eccessivi rispetto a manifestazioni emotive intense dei bambini. Alcuni studi, in particolare, hanno dimostrato la presenza di elevati punteggi di anxiety sensitivity soprattutto in persone che soffrono di Attacchi di Panico. Ma di cosa hanno paura le persone con un’elevata anxiety sensitivity? Le paure sono diverse ma essenzialmente raggruppabili a tre tipologie di pericolo:

  1. Paura della malattia o della morte. La persona teme che le sensazioni delegate all’ansia lo possano portare alla morte. Possono credere, ad esempio, che la tachicardia causerà loro un infarto.
  2. Paura di perdere il controllo e di impazzire. Nei casi in cui la persona manifesti sintomi come la confusione mentale o episodi di derealizzazione la paura che si genera è quella di impazzire e quindi perdere il controllo sulla propria vita mettendo anche in pericolo l’incolumità loro e degli altri.
  3. Paura di fare una figuraccia e di venire giudicati male. Il timore è legato alla possibilità di essere esposti ai giudizi negativi della gente a causa delle manifestazioni fisiche dello stato d’ansia. Secondo le persone con questi timori, infatti, le manifestazioni fisiche dell’ansia (es. tremori, sudorazione) possono essere interpretate dagli altri come sintomo di debolezza o con disgusto.

Come si supera la paura della paura?

Quando nel lavoro terapeutico mi accorgo che la componente di anxiety sensitivity è rilevante in un determinato disturbo cerco di affrontarla subito. Si parte proprio dalle sensazioni per andare alla ricerca dei pensieri che si fanno in corrispondenza con l’attivazione neurovegetativa. Una delle tecniche che ho trovato più efficaci è la normalizzazione delle sensazioni di paura. Quelle stesse sensazioni di paura che tanto ci spaventano (palpitazioni, sudorazione, dispnea o sensazione di soffocamento, dolore o fastidio al petto, tremori, confusione mentale..), infatti, le abbiamo provate tranquillamente in altre situazioni della nostra vita senza spaventarci. Alla fine di una corsa il nostro cuore batte all’impazzata e facciamo fatica a respirare, se ci alziamo durante la notte possiamo essere confusi, possiamo avere un brivido se ci emozioniamo e via dicendo potrei farvi mille esempi in cui tutti ci riconosceremmo. Perché allora a volte ci spaventiamo e l’ansia dilaga? Perché la nostra mente non trova spiegazioni a quei sintomi, rileva una discrepanza tra ciò che si prova e il contesto.

Un esempio concreto penso aiuti a capire meglio. Qualche anno fa si presentò da me in studio Fabio un giovane ragazzo molto preoccupato che chiedeva di poter fare una psicoterapia per un problema di ansia. Durante il nostro primo colloquio mi disse di essere un atleta che aveva iniziato a “non stare molto bene” e si era convinto di poter avere un problema cardiaco smentito dai successivi numerosi approfondimenti medici. Il responso dell’ultima visita fu che il problema era “psicologico” e questo lo spinse a cercare un terapeuta ad orientamento cognitivo-comportamentale per iniziare una terapia per l’ansia. Dopo qualche seduta emerse un serio problema di anxiety sensitivity che si manifestava soprattutto in relazione all’accelerazione del battito cardiaco e all’accelerazione del ritmo respiratorio. Analizzai insieme a lui i contesti in cui lui avvertiva quest’anomala accelerazione del battito e come immaginavo esso non si manifestava durante le prestazioni sportive intense ma in momenti in cui Fabio reputava quel battito inadeguato. Un episodio in particolare fu illuminante e segnò una svolta all’interno del percorso:

Raccontami dell’ultima volta che ti sei spaventato per l’accelerazione del battito cardiaco.

Fabio: Dunque ero al lavoro e rientrato dal pranzo ho fatto le solite due rampe di scale e il cuore era come impazzito, batteva all’impazzata.

Perchè pensi che il cuore fosse impazzito?

Fabio: beh mi alleno 4 volte in settimana 2 ore alla volta, riesco a correre 2 ore di seguito e dovrei farli volando due piani di scale non arrivare in cima con la tachicardia.

Mentre salivi le scale cosa stavi pensando?

Fabio: volevo proprio vedere come reagiva il mio cuore, era qualche giorno che non mi dava problemi e ho proprio percepito l’accelerazione mano a mano che salivo i gradini.

Vedi Fabio il fatto che tu ti sia concentrato sul tuo cuore sicuramente ne ha contribuito ad accelerarne la frequenza ma, soprattutto, ti ha fatto accorgere che era accelerato

Fabio: come facevo a non accorgermene?

Eri solo Fabio o c’era qualcuno con te?

Fabio: c’era il mio capo.

E lui non si è affaticato?

Fabio: questo è il punto; lui è obeso e si lamenta che fa fatica ma in realtà non mi sembra che arrivi in cima con il battito accelerato come me.

Hai detto una cosa molto importante Fabio, il tuo capo che è tutt’altro che atletico non ha aspettative sul suo salire le scale ed anzi sa che potrebbe fare fatica e probabilmente sale più lentamente di te e quand’anche facesse fatica l’attribuirebbe, giustamente, al suo sovrappeso ripromettendosi di dimagrire. Tu invece pretendi di essere infaticabile mentre il tuo cuore di atleta si attiva molto in fretta proprio perché è allenato ed è abituato a fare performance molto alte. Tu sali le scale concentrandoti sui segnali che inevitabilmente noterai e non riesci ad attribuirli a nessun difetto migliorabile (come il sovrappeso del tuo capo) e quindi la tua mente va alla ricerca di altre cause anomale ben più inquietanti. Prova a salire le scale concentrandoti su quello che farai dopo e non affrontarle come una performance o un test.

Fabio: ha ragione, ogni occasione è buona per me per verificare se il mio cuore funziona bene mentre il mio capo arriva con il fiatone, si massaggia la pancia e ridendo promette di dimagrire…alla fine riesce ad affrontare meglio lui di me la fatica.

La strada intrapresa nella terapia di Fabio è la normalizzazione del sintomo: se sei un super atleta mai fai in fretta due rampe di scale dopo mangiato preoccupato di cosa potrebbe succedere potresti notare un’accelerazione del tuo battito cardiaco. È NORMALISSIMO. Occorre comprendere che sono sintomi molto comuni e spostare l’attenzione su altre cose molto più utili e importanti in quel momento. Gradualmente, togliendo l’attenzione all’attivazione neurovegetativa, avvertiremo sempre meno quei sintomi che tanto ci avevano spaventato.


Qualche riferimento bibliografico scientifico:

 

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